Ascoltare, saper ascoltare, è difficile. In chi parla, infatti, c’è sempre la presunzione che il proprio dire coincida con l’interesse, l’intelligenza e la ricettività di chi ascolta.
Cosa significa ascoltare? Cosa comporta? È una capacità acquisibile oppure una funzione predisposta?
L’ascolto è articolato su tre livelli:
- ascolto della parola che richiede un silenzio inteso non solo come tacere, ma come sospensione di un giudizio o/e di un’emozione.
- ascolto delle intenzioni che necessita di un sapere attento al linguaggio del corpo: silenzi, gesti, pause, i risalti offerti dalle ridondanze (ripetizioni, sottolineature, accentuazioni), posture del corpo, mimica facciale sono indicatori che rivelano contenuti del non detto;
- ascolto dell’interiorità richiede di riconoscere nell’altro una storia, un’esperienza profonda. Consente di valorizzare le differenze (processo di differenziazione) ma, nello stesso momento, favorisce l’apprendimento di una complementarietà. Questa III fase favorisce non solo l’avvicinamento al mondo altrui, ma consente una comprensione del proprio modo di essere, di esistere.
Ascoltare non è una funzione take-away, pronta da portare via! È da educare. Nel neonato vi è una predisposizione al suono della voce della madre, ma questa forma di sentire appartiene alla sfera dei bisogni.
L’arte dell’ascolto, invece, esplora mondi (im)possibili. La parola ascoltata è terra inesplorata; ascoltare spiazza, stupisce. Si preferisce, spesso, la parola “intonata” con le nostre aspettative, si rifiuta quella “stonata”, perché apre al conflitto.
Il saper ascoltare non “dimentica” l’altro. E’ tensione alla ricerca d’altro. Non è, necessariamente, approdo sicuro. Forse, è il navigare a vista, nella speranza di trovare, per un attimo, il piacere di tuffarsi vicini, non sempre in acque sicure, tranquille!
Barbara Gaiardoni