“Io ho quel che ho donato”:un motto utilizzato da Gabriele D’annunzio, scolpito all’ingresso del Vittoriale degli Italiani oppure impresso sulla carta da lettere spedita ai suoi interlocutori e interlocutrici epistolari. Non mi soffermerò sulla chicca né sul contesto storico e logistico abitato dall’artista, ma sul contenuto dell’affermazione.
Come si può avere il donato? Un paradosso forse? No, non lo è. Perché il dono non si riferisce a scambi di buoni comportamenti. “Una mano lava l’altra!” oppure “ Il dare è avere…” non dicono del contenuto dell’atto donativo: sono modi di dire che riassumono, piuttosto, il vantaggio e il ritorno di un’azione. Testimoniano una logica tipica del commercio interpersonale basata sullo scambio. Oggi, molto fashion!
Il dono, invece, è un atto a perdere, perché agisce senza aspettarsi qualcosa. Non calcola. Dimentica il proprio donarsi: s’annulla nel momento in cui il gesto è compiuto. Non agisce per vanto,ma risponde ad una condizione esistenziale umana. Il dono fa di noi ciò che siamo. Si dona, infatti, solo ciò che si è. Perciò, è cosa difficile.
Non esiste il dono per eccellenza, esiste l’intenzione di donare che basta a ripagarsi. È una vera e propria espropriazione che non intende nemmeno emozionare. È fuori dal palcoscenico, lontano dai riflettori.
Donare sembra essere cosa rara ; soprattutto di questi tempi, dove ciò che conta è fare scalpore, è farsi ricordare. Il dono, invece, dà e poi dimentica. In silenzio.
Barbara Gaiardoni