L’etichetta può essere intesa in modi diffferenti. Il significato che a me interessa è quello dipendente da “diagnosi “, da “giudizi” affrettati.
Da quello scolastico a quello professionale, molti sono i contesti in cui accade che qualcuno venga etichettato come “malato”, perchè differente. E per differente, intendo dire associare appellativi quali “più vivace”, “più rallentato”, “più aggressivo” di altri.
Le diagnosi di un certo tipo e fatte in un certo modo, quasi per tirar le somme frettolosamente, sono definizioni che hanno dei costi economici e personali molto alti. Una volta apposta l’etichetta, alta è la fatica per toglierla, molto superiore a quella che si è fatta per appiccicarla.
Ciascuno di noi ha delle difficoltà: è onesto riconoscere le nostre da quelle altrui. E’ facile trovare il capro espiatorio, è difficile, poi, raccogliere i cocci di una distruzione scorretta che, inevitabilmente, accade e coinvolge anche l’additatore.
Il labelling (etichettamento), inevitabilmente, produce una semplificazione di esistenze portatrici, nonostante tutto, di caratteristiche complesse.Il soggetto colpito da qualsivoglia forma di “anomalia”(???), infatti, manifesta sempre e comunque il desiderio di essere nel mondo: si racconta, si relaziona, ricerca il contatto, condivide il piacere di esserci. Una stigmatizzazione può indurre a segregazione, isolamento.
Questa riflessione nasce perché potrebbe accadere d’imbattersi in pesanti affermazioni, che si soffermano e attribuiscono un forte peso a quelle differenze “scomode”.
Conta porci la dovuta attenzione, per non arrivare ad una disumanizzazione dell’individuo e ad una riduzione delle possibilità di vita tese a valorizzare l’esistenza di uomini e donne.
Barbara Gaiardoni