L’ospite ha un doppio significato, di chi ospita e di chi è ospitato. Ospite è colui che accoglie con la consapevolezza di essere, anche, ricevuto. Pertanto, non dovrebbe temere l’estraneo: se ciò accade, è perchè chi ospita teme soprattutto se stesso.
Jacques Derrida, nel suo Sull’ospitalità (Baldini editore 2000), scrive:l’ospite “non è soltanto qualcuno a cui si dice “vieni”, ma “entra”, entra senza aspettare, fa’ tappa da noi senza por tempo in mezzo, affrettati a entrare, “vieni dentro”, “vieni in me”, non solo verso di me, ma in me: occupami, prendi il mio posto, non limitarti a venirmi in contro o a “casa mia”.
L’ospitalità, quindi, diventa cosa difficilissima da accogliere e da compiere. L’ospitalità apre al gesto dell’accogliere, all’esperienza sensibile e razionale del ricevere. È un benvenuto rivolto all’altro che porta con sé dissonanze del lontano. Lo sconosciuto rimane tale senza essere escluso: resta, adagiato nel tepore della vicinanza, oltre la soglia, presso l’altro, in una dimora aperta che non rivendica proprietà alcuna. E’ come se quella casa vissuta come propria non fosse posseduta nemmeno da chi ospita. Esiste, infatti, uno spossessamento originario che vede l’ospitare non un’azione generosa nei confronti dell’altro, ma un gesto intrinseco dell’interiorità umana.
Quindi, l’ospitare non ha che fare con il calcolo. Non ha senso aspettarsi niente dall’ospite. Nutrire aspettative significherebbe corrispondere a regole di costume che fanno dell’incontro uno spazio di convenevoli dettati dal vivere civile, troppo attento sia al rispetto dei confini, causa di aberranti violenze, sia alla logica commerciale dove l’essere umano diventa moneta di scambio.
Arrivati a questo punto, è fondamentale dare il benvenuto, senza ironia, all’ingratitudine dell’altro. Perché se la gratitudine riporta ad un movimento di ritorno, d’interesse, l’ingratitudine, invece, permette l’apertura di un gesto che rinuncia al trionfo del proprio agire. Si tenta, pertanto, di andare al di là dell’interesse, dove un varco apre all’operare che diventa un “investimento” a perdere.
Barbara Gaiardoni